A2 * Processo – Divieto di motivi nuovi in appello
1) L’appello si palesa parzialmente fondato nei termini che seguono.
2) In via preliminare il Collegio rileva la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, in forza delle previsioni dell’art. 133, comma 1, lett. b) e c), del codice del processo amministrativo, che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ogni controversia relativa ai rapporti di concessione di beni e di servizi pubblici, fatte salve quelle aventi ad oggetto indennità, canoni o altri corrispettivi.
In sostanza, nell’ambito dei rapporti concessori spettano alla giurisdizione ordinaria solo le controversie aventi a oggetto “indennità, canoni o altri corrispettivi” e anche in quest’ambito solo quelle che abbiano contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere di intervento della p.a. a tutela di ipotesi generali, rientrando nella giurisdizione amministrativa quelle che coinvolgano l'esercizio di poteri discrezionali inerenti alla determinazione del canone, dell'indennità o di altri corrispettivi (ex multis Cass., SS.UU., 9 agosto 2018, n. 20682; di recente T.A.R. Veneto Venezia Sez. I, 23 febbraio 2022, n. 349).
Nel caso di specie, la controversia, ancorchè si risolva in una richiesta risarcitoria, ha a oggetto la valutazione dei rapporti giuridici nascenti dalla concessione amministrativa e i comportamenti dell’amministrazione posti in essere nell’ambito della gara di affidamento e nel rapporto concessorio, restando, quindi, in un’area in cui l’Amministrazione viene in rilievo come ente pubblico affidatario/concedente e sicuramente vengono in rilievo profili pubblicistici.
Rientra, infatti, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia inerente l'accertamento dei profili di inadempimento relativi a un atto convenzionale e delle relative conseguenze in punto di risoluzione del contratto per inadempimento, dovendosi far riferimento alla previsione di cui all'art. 133, comma 1, c.p.a. (T.A.R. Lombardia Milano Sez. I, 22 luglio 2021, n. 1792), così come quella inerenti a pretese risarcitorie relative ai comportamenti assunti dall’amministrazione in sede di affidamento della concessione o nell’adempimento della stessa.
Né certamente l’apposizione di una clausola nella Convenzione accessiva alla concessione, che devolve le relative controversie interpretative o esecutive al Tribunale ordinario (e in particolare “in modo esclusivo ed inderogabile al Tribunale del Foro di Tivoli”), può derogare il riparto di giurisdizione stabilito dalla legge, essendo tale materia sottratta alla disponibilità delle parti.
3) Nel merito, il Collegio, per ragioni di economia espositiva e connessione tra gli argomenti posti come motivi di impugnativa, ritiene di dover procedere a uno scrutinio congiunto dei motivi di appello.
4) Al riguardo, il Collegio ritiene, innanzitutto, di dover disattendere, al pari del giudice di primo grado, la ricostruzione offerta dalla parte appellante che ritiene come a seguito dell’annullamento degli atti inerente all’affidamento delle concessioni dei beni e dei inerenti servizi, le relative convenzioni, che ne disciplinano gli aspetti patrimoniali e gestionali, siano rimaste vigenti ed efficaci, in assenza di una espressa statuizione in merito del giudice che ha disposto l’annullamento e, nello specifico, della sentenza di questo Consiglio n. 1713/2012, o di un espresso atto di revoca dell’Amministrazione.
Gli appellanti invocano l’applicabilità analogica dell'art. 122 del c.p.a., che esclude la caducazione automatica del contratto all’esito dell’annullamento degli atti di gara, prevedendo che "fuori dei casi indicati dall'articolo 121, comma 1, e dall'articolo 123, comma 3, il giudice che annulla l'aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara".
A parere del Collegio, tuttavia, nel caso di concessione di beni pubblici e inerenti servizi, prevale infatti l’aspetto pubblicistico, che si estende anche alla convenzione accessiva, e a tale fattispecie e non possono applicarsi per analogia la norme, richiamate dagli appellanti, sulla sorte del contratto in seguito all’annullamento degli atti di gara, e nello specifico dell’art. 122 del codice dei contratti pubblici, espressamente riferite ai contratti di appalto.
Tali norme presuppongono la stipula di un contratto di appalto, ovverosia di un rapporto contrattuale i cui profili pubblicistici si limitano alla procedura di scelta del contraente e ad alcune norme derogatorie della disciplina negoziale del codice civile in ragione degli interessi pubblicistici che connotano la sfera dei contratti pubblici.
Tali norme si pongono, quindi, su un piano diverso rispetto a fattispecie, come quella in esame, connotate da un rapporto concessorio di affidamento dei beni e servizi pubblici, dove l’aspetto negoziale si pone come accessorio al primo e impedisce l’applicazione analogica della normativa inerente alla sorte del contratto in caso di annullamento dell’affidamento, non ravvisandosi elementi di assimilazione analogica.
Da ciò deriva la correttezza della statuizione della sentenza gravata che ha ritenuto di non potersi pronunciare in ordine alla risoluzione per inadempimento delle convenzioni, già “travolte” dall’annullamento degli atti di affidamento.
In tal senso, risulta quindi corretta la sentenza sia nella parte in cui ritiene che gli appellanti non avevano più titolo per detenere gli immobili, che pertanto andavano restituiti al Comune, sia nella parte in cui ha ritenuto di non potere accogliere una domanda di risoluzione delle convenzioni per inadempimento da parte dell’ente pubblico, stante la caducazione di queste con il venir meno dell’atto concessorio, così come di non poter accogliere la domanda risarcitoria nei termini in cui si voglia far valere il danno derivante dall’inadempimento degli obblighi convenzionali (e da valutare, come di seguito indicato, sotto altri profili).
5) Né può trovare spazio il secondo motivo di appello, inerente all’allegata circostanza che, in ogni caso, la sentenza n. 1713/2012 avrebbe riguardato solo una delle due Convenzioni in questione, e precisamente la n. 227946 del 10.12.2010, comparendo solo questa nell'elenco riportato nella medesima sentenza e tra gli atti impugnati in primo grado.
Secondo gli appellanti, quindi, a tutto concedere, solo la citata convenzione n. 227946 del 10.12.2010 sarebbe eventualmente rimasta “travolta” dalla sentenza n. 1713/2012, ma non la Convenzione n. 227945 stipulata in pari data.
Al riguardo, il Collegio rileva come il punto rilevante non risulti essere se sia intervenuta o meno l’impugnativa diretta delle convenzioni nel giudizio che ha dato esito alla sentenza n. 1713/2012, bensì se siano stati impugnati o meno gli atti inerenti all’affidamento di queste convenzioni, derivando la caducazione di queste ultime dall’annullamento dell’affidamento e, ancor prima, dagli atti che indicono la procedura.
In ogni caso, il Collegio osserva come tale censura non può essere introdotta in sede di appello, non essendo stato sollevata come motivo di ricorso nel giudizio di primo grado e costituendo, quindi, un inammissibile ius novorum.
Come è noto, nel processo amministrativo, in ossequio al principio del c.d. effetto devolutivo dell'appello, l’art. 104, comma 1, c.p.a. pone espressamente il divieto dei nuovi motivi in appello (ex multis Cons. Stato, Sez. III, 6 settembre 2021, n. 6227; Cons. Stato, sez. IV, 15 giugno 2021, n.4639; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2020, n.5415; Cons. Stato, sez. IV, 12 ottobre 2017, n.4729).
Il thema decidendum nel giudizio di appello è circoscritto alle sole censure ritualmente sollevate in primo grado, non potendosi dare ingresso, per la prima volta in tale sede a nuove doglianze (Cons. Stato, Sez. III, 25 luglio 2019, n. 5266; Cons. Stato, sez. VI, 27 novembre 2010, n. 8291), siano dette doglianze in fatto o in diritto (Cons. Stato, sez. IV, 8 gennaio 2018, n. 76; Cons. Stato, sez. IV, 8 febbraio 2017, n. 549; Cons. Stato, sez. V, 22 marzo 2012, n. 1640).
Nel caso di specie, nel ricorso di primo grado non vi è cenno di tale censura. Anzi, il ricorrente, pur indicando espressamente al quarto motivo di ricorso (pag. 21) che la sentenza del Consiglio di Stato “che ha dichiarato illegittima l’indizione delle due gare sottese alle Convenzioni del 10 dicembre 2010, Rep. n. 227945 e Rep. n. 227946, è motivata con l’argomentazione che il Comune di Subiaco ha posto in gara concessioni riferite a beni già in capo ad altri, segnatamente alla Livata 2001 S.r.l.”, non contesta la circostanza che la stessa riguardi le procedure di affidamento di entrambe le convenzioni.
Il ricorso di primo grado dà, quindi, per presupposto, e comunque non contesta, che la sentenza di annullamento del Consiglio di Stato riguardi entrambe le procedure di affidamento (non formulando una censura sul punto), incentrando piuttosto le sue doglianze sull’asserita circostanza che da tale pronuncia non derivi un affetto caducante automatico sulle relative convenzioni, sollevando, quindi, un profilo diverso da quello allegato nel secondo motivo di appello.
6) Ferma quanto indicato, il Collegio deve comunque pronunciarsi in ordine al rigetto della domanda risarcitoria che, seppure in prima battuta risulta legata nel ricorso di primo grado all’accertamento dell’inadempimento della Convenzione e alla sua conseguente risoluzione, appare riqualificabile, alla luce della sua formulazione e in forza dei poteri di esatta qualificazione della domanda attribuiti al giudice, in termini più ampi, tali da comprendere anche forme di tutela risarcitoria differente quali quella extracontrattuale o precontrattuale, avendo la parte ricorrente sostanzialmente chiesto il risarcimento del danno per un comportamento negligente dell’amministrazione che ha proceduto all’affidamento della concessione e la stipula delle relative convenzioni con gli odierni appellanti, senza premurarsi di verificare, o facendolo in modo errato, se la precedente concessione, affidata ad altri soggetti, fosse ancora vigente.
In merito vanno fatte alcune precisazioni.
L’aver affidato agli attuali appellanti le concessioni in questione e stipulato le relative convenzioni senza considerare il vizio inerente al mancato previo venir meno della precedente concessione assegnata a terzi, acclarato dalla più volte citata sentenza di questo Consiglio n. 1713/2012, costituisce un comportamento da parte dell’amministrazione sicuramente riconducibile, oltre che all’inosservanza delle norme pubblicistiche di legittimità degli atti, anche alla violazione di quei doveri di comportamento di correttezza e buona fede che, anche secondo la più recente giurisprudenza, vengono in rilievo in tema di configurazione della responsabilità precontrattuale.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha affermato l’esistenza di una responsabilità precontrattuale in capo alla P.A., quale espressione di un principio generale, nel caso in cui ingeneri un legittimo affidamento, sulla base del principio di dissociazione tra le cosiddette regole di validità dell’atto, incentrate sulla normativa di carattere pubblicistico e la lesione di interessi legittimi, e le regole di responsabilità dell’Amministrazione, basate sulla violazione dei diritti soggettivi derivanti dalla violazione del canone che impone un comportamento improntato alla correttezza e buona fede da parte dell’Amministrazione.
Al riguardo, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 4 maggio 2018, n. 5, ha indicato che nello svolgimento dell'attività autoritativa, l'amministrazione è tenuta a rispettare oltre alle norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l'invalidità del provvedimento e l'eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell'interesse legittimo), anche le norme generali dell'ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza, la violazione delle quali può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull'interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illecite frutto dell'altrui scorrettezza.
Pertanto la pubblica amministrazione che violi i doveri di lealtà e di correttezza, ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione o validità di un atto negoziale, è chiamata a risponderne a titolo di responsabilità precontrattuale.
Il dovere di comportamento di buona fede da parte dell’amministrazione giustifica il formarsi di legittime aspettative in capo al privato, che possono essere frustrate anche da provvedimenti legittimi, ancorché fonte di possibile responsabilità. Peraltro tale dovere di collaborazione e buona fede è bilaterale, ponendosi un obbligo di diligenza in capo al privato, il cui affidamento deve risultare incolpevole.
In sostanza, nel caso di esercizio del potere di autotutela o di accertamento di decadenze per assenza di necessari presupposti, la causa di illegittimità o irregolarità che ha portato all’esercizio del suddetto potere non deve essere nota o, comunque, conoscibile sulla base dell’ordinaria diligenza dal privato che confida nella stabilità degli atti posti in essere dall’amministrazione.
Tali approdi sono stati pienamente confermati dalla successiva pronuncia dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio 29 novembre 2021, n. 21, che ha inoltre espressamente indicato che la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nelle ipotesi in cui l’annullamento che frustra le aspettative dell’interessato non sia frutto di autotutela dell’Amministrazione, bensì derivi da una pronuncia del giudice amministrativo.
Quest’ultima decisione ha, infatti, affermato il principio di diritto secondo cui nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull'operato dell'amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest'ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi.
Tali principi sono applicabili al caso in esame, caratterizzato dall’operato di un’Amministrazione locale che ha svolto delle procedure di affidamento delle concessioni, affidato le stesse agli odierni appellanti e stipulato le relative convenzioni senza tener conto della circostanza, poi accertata in sede giudiziaria, che la concessione del precedente concessionario era ancora vigente ed efficace.
Questo comportamento si pone in violazione degli anzidetti criteri di correttezza e buona fede, in grado di integrare gli estremi della responsabilità precontrattuale.
Sono necessarie, tuttavia, alcune precisazioni in quanto proprio l’ultima citata pronuncia dell’Adunanza Plenaria, n.21/2021, nell’indicare che la responsabilità precontrattuale può sussistere anche nel caso di annullamento giurisdizionale, ha puntualizzato i limiti di tali responsabilità in quest’ultima ipotesi, approfondendo il necessario aspetto dell’incolpevolezza dell’affidamento e affermando come, in linea teorica, non possa formarsi un legittimo affidamento in capo al soggetto interessato nel caso in cui quest’ultimo era a conoscenza, o poteva essere a conoscenza secondo diligenza, della possibile presenza di profili di annullabilità dell’atto e, quindi, ogniqualvolta l’interessato sia stato parte del giudizio di annullamento.
In questo caso la responsabilità precontrattuale può rilevare solò per la fase temporale precedente all’intimazione in giudizio del medesimo interessato.
In particolare, l’organo nomofilattico della giustizia amministrativa ha rilevato che “l'elemento della colpevolezza dell'affidamento si modula diversamente nel caso in cui l'annullamento dell'aggiudicazione non sia disposto d'ufficio dall'amministrazione ma in sede giurisdizionale. In questo secondo caso emergono con tutta evidenza i caratteri di specialità del diritto amministrativo rispetto al diritto comune, tra cui la centralità che nel primo assume la tutela costitutiva di annullamento degli atti amministrativi illegittimi, contraddistinta dal fatto che il beneficiario di questi assume la qualità di controinteressato nel relativo giudizio. Con l'esercizio dell'azione di annullamento quest'ultimo è quindi posto nelle condizioni di conoscere la possibile illegittimità del provvedimento a sé favorevole, per giunta entro il ristretto arco temporale dato dal termine di decadenza entro cui ai sensi dell'art. 29 cod. proc. amm. l'azione deve essere proposta, e di difenderlo. La situazione che viene così a crearsi induce per un verso ad escludere un affidamento incolpevole, dal momento che l'annullamento dell'atto per effetto dell'accoglimento del ricorso diviene un'evenienza non imprevedibile, di cui il destinatario non può non tenere conto ed addirittura da questo avversata allorché deve resistere all'altrui ricorso; per altro verso porta ad ipotizzare un affidamento tutelabile solo prima della notifica dell'atto introduttivo del giudizio”.
Nel caso di specie gli odierni appellanti sono stati, sin dal primo grado, parti del giudizio di annullamento degli atti di affidamento delle concessioni e non risulta che i danni da questi lamentati siano riferibili a un periodo di tempo precedente alla loro intimazione in giudizio e, anzi, la natura dei pregiudizi asseriti propenderebbe per l’esclusione di tale eventualità (si tratta in prevalenza di effettuazione di opere che non pare possano essere state realizzate prima della notifica dell’impugnativa in primo grado degli atti concessori).
Il Collegio ritiene, tuttavia, di dover dare una declinazione concreta al principio affermato in termini generali dalla richiamata Adunanza Plenaria in ordine all’assenza di un affidamento incolpevole sulla legittimità dell’atto amministrativo (e nella specie l’aggiudicazione delle concessioni) ogniqualvolta l’interessato sia a conoscenza dell’instaurarsi di un giudizio amministrativo di annullamento. Una declinazione che non escluda in termini assoluti la responsabilità precontrattuale in tali ipotesi, ma che riveda il principio alla luce della concrete circostanze inerenti alla fattispecie esaminata e alle possibili modalità di formazione dell’affidamento incolpevole.
Tale esclusione del formarsi di un legittimo affidamento si rivela plausibile, infatti, nel caso in cui l’illegittimità sia del tutto palese o le concrete circostanze consentano all’interessato di attendere gli esiti giudiziali, anche parziali, della controversia di annullamento, evitando di porre in essere atti negoziali o altri atti collegati con l’atto amministrativo favorevole (nel caso di specie la concessione) sulla base dell’aspettativa di legittimità dell’atto gravato, che poi potrebbe rivelarsi frustrata con conseguente danno.
Ciò ad esempio è possibile in quanto, ad esempio, il giudizio è in attesa di una pronuncia sospensiva o anche di primo grado, e sino alla pronuncia, e la natura dell’atto amministrativo ampliativo non necessiti una sua celere implementazione e non comporti obblighi per l’interessato in tal senso.
Lo stesso non può dirsi nelle ipotesi in cui l’illegittimità non sia palese e la concreta situazione incisa non consenta di attendere a scopo precauzionale l’esito del giudizio, pena il venir meno di ogni interesse concreto e la possibilità di usufruire dell’atto ampliativo adottato dall’amministrazione; soprattutto se per esito del giudizio si intenda la conclusione del secondo grado e, in sostanza, il passaggio in giudicato della pronuncia che definisca la validità dell’atto.
Nell’ipotesi in esame, l’atto ampliativo riguardava l’affidamento di una concessione di beni per lo svolgimento di servizi, avverso gli atti di tale affidamento il giudice di primo grado aveva rigettato l’istanza cautelare e, successivamente, il ricorso era stato respinto in primo grado.
Solo in sede di appello è stata concessa la sospensione dell’esecutività della sentenza del T.A.R, poi riformata con la sentenza finale del Consiglio di Stato che ha annullato gli atti di gara.
In tale situazione non è sostenibile che il soggetto che ha ottenuto la concessione e doveva iniziare la gestione dei relativi servizi dovesse attendere l’esito del giudizio di appello, non consentendo la natura dell’atto la passiva e prudenziale attesa dell’esito del giudizio di secondo grado. Una tale soluzione sarebbe anche contraria all’interesse pubblico allo svolgimento del servizio per il quale era stata rilasciata al concessione, che rimarrebbe frustrato, al pari di quello dell’interessato a esercitare l’attività per cui ha ottenuto l’affidamento della concessione, che verrebbe compromesso oltre misura, se non definitivamente.
Nel caso di specie, gli atti di aggiudicazione e la stipula delle relative convenzioni sono intervenute nel dicembre del 2010, mentre l’ordinanza di sospensione della sentenza di primo grado, prima della sua riforma con la sentenza finale, è intervenuta solo nel novembre del 2011.
D’altra parte, anche le citate Adunanze Plenarie n. 5/2018 e 21/2021, nell’indicare che la responsabilità precontrattuale può radicarsi in qualsiasi momento della procedura (anche in una fase precedente all’aggiudicazione) rilevano che ai fini del verificarsi del presupposto del legittimo affidamento si deve tener conto delle circostanze concrete della fattispecie, quali ad esempio il grado di sviluppo della procedura, e che gli aspetti da considerare nel momento in cui si procede all'applicazione di tali principi, e a verificare se nel caso concreto effettivamente ricorrono gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, sono molteplici e non predeterminabili in astratto, perché dipendono dalla innumerevoli variabili che possono, di volta in volta, connotare la specifica situazione.
Si ritiene, quindi, che la conoscenza dell’esistenza della pendenza di un giudizio sia un elemento rilevantissimo ai fini della verifica dell’assenza di colpa dell’affidamento, ma che in ogni caso quest’ultima debba essere effettuata alla luce delle concrete circostanze della fattispecie.
Inoltre, e l’argomento non è di poco momento, il rilascio di una concessione e la stipula della relativa convenzione impongono degli obblighi di facere al concessionario, pena le conseguenze da un lato dell’inadempimento agli obblighi convenzionali e la possibile decadenza dalla convenzione, di tal che, a meno che non sia intervenuta una pronuncia giudiziale di sospensiva dell’atto gravato, il concessionario non può scegliere di rimanere inerte, attendendo l’esito del giudizio, ma deve porre in essere le previste attività, avendone assunto un vero e proprio obbligo giuridico.
In queste ipotesi appare arduo ritenere l’impossibilità del formarsi di una aspettativa legittima, perché in tal caso l’interessato si vedrebbe costretto a porre in essere una attività, fonte di possibile danno, assumendo totalmente a suo carico il rischio di illegittimità dell’atto a causa comportamenti negligentemente posti in essere dall’Amministrazione.
E, d’altra parte, l’ipotesi in relazione al quale l’Adunanza Plenaria n. 21/2021 ha statuito l’indicato principio di diritto - sulla base di un’ordinanza di rimessione di questa Sezione (n. 2753/2021) - riguardava l’annullamento di un provvedimento di aggiudicazione definitiva di una procedura di gara d’appalto, senza l’intervento della stipula di un atto negoziale che obbligava l’interessato a porre in essere delle attività fonte di spesa.
Una situazione, quindi, differente da quella del caso di specie, ove in capo all’interessato si ravvisano degli obblighi di esecuzione della concessione, sanciti anche da una convenzione.
Infine, se è vero che il dovere di comportamento di buona fede - oggi espressamente declinato nei rapporti tra Amministrazione e cittadino dal comma 2-bis dell'art. 1, della L. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, di conversione del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 -
è bilaterale, ponendosi un obbligo di diligenza in capo al privato, che deve tener conto di quelle circostanze conosciute o conoscibili che possono causare l’invalidità dell’atto; è altrettanto vero che anche l’Amministrazione, al momento dell’intimazione in giudizio viene messa a conoscenza dei possibili vizi dell’atto ampliativo e, sempre nell’ambito del principio di correttezza e buona fede, potrebbe intervenire in autotutela per evitare l’ingenerarsi di aspettative nel privato, soprattutto nei casi in cui la situazione di fatto, considerata la natura dell’atto e delle concrete circostanze, non consente all’interessato di attendere l’esito del giudizio per non vanificare del tutto i vantaggi acquisti con l’atto amministrativo a lui favorevole o non esporlo a possibili responsabilità per il mancato adempimento degli eventuali doveri o obblighi derivanti a suo carico dal provvedimento.
Fermo restando, quindi, il principio generale di diritto posto dall’indicata Adunanza Plenaria in ordine all’assenza di colpa dell’affidamento, non può escludersi che in determinati casi possano ravvisarci, alla luce della considerazione di tutti i concreti elementi della fattispecie, ipotesi in cui l’affidamento tutelabile si formi pur se l’interessato sia stato edotto della pendenza di un procedimento giudiziario avente a oggetto l’annullamento dell’atto amministrativo a lui favorevole.
In tal senso fattori sicuramente rilevanti sono il grado di sviluppo raggiunto dal procedimento giudiziario, come ad esempio se il giudizio si è ancora in fase cautelare, se è stata emessa una sentenza di primo grado o se è stata sospesa l’efficacia della pronuncia di prime cure; così come la natura dell’atto inciso e la concreta situazione sorta dall’atto ampliativo, nel senso che rileva se ragionevolmente sia possibile per l’interessato attendere l’esito del giudizio senza perdere completamente o in gran parte le utilità per il quale l’atto è stato rilasciato.
Non ultima circostanza è quella dell’aspetto della doverosità degli atti da porre in essere dal privato, nel senso che rileva se lo stesso ha la possibilità di scegliere se attendere l’esito del giudizio o se gli sono imposti da obblighi nascenti dallo stesso atto amministrativo controverso.
A parere del Collegio, nel caso in esame ricorrono, inoltre gli altri elementi al fine di integrare la responsabilità precontrattuale ovverosia, come indicato dalla già richiamata Adunanza Plenaria n. 5/2018, oltre all’aver maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose, anche le circostanze che: - detto affidamento incolpevole sia stato leso da una condotta che, valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai cennati doveri di buona fede e lealtà; - l’oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'amministrazione in termini di colpa o dolo; - il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'amministrazione.
Tali elementi si possono dire integrati nel caso in esame in quanto la sentenza di annullamento dell’atto di affidamento della concessione ha evidenziato una condotta negligente da parte dell’amministrazione e gli odierni appellanti hanno documentalmente comprovato l’esistenza di un danno patrimoniale per le spese sostenute ai fini della gestione dei beni e servizi affidati in concessione.
Né può dirsi che l’illegittimità delle procedure di affidamento fosse palese, stante anche che il giudice di primo grado non ha provveduto all’annullamento.
Per quanto indicato il Collegio ritiene ci siano gli estremi per la riforma della sentenza gravata e una pronuncia di condanna al risarcimento del danno.
7) Il risarcimento, tuttavia, non può essere concesso nei termini indicati dall’appellante, che ha fatto riferimento in primis al danno da inadempimento, comprensivo del danno emergente e del lucro cessante, inteso quest’ultimo come il mancato guadagno che gli sarebbe derivato dall’esecuzione delle convenzioni.
Sempre secondo gli insegnamenti dell’Adunanza Plenaria, per comune acquisizione di diritto civile, la tutela risarcitoria per responsabilità precontrattuale è posta a presidio dell'interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, e dunque del più generale interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo negoziale.
La reintegrazione per equivalente è pertanto ammessa non già in relazione all'interesse positivo, corrispondente all'utile che si sarebbe ottenuto dall'esecuzione del contratto, riconosciuto invece nella responsabilità da inadempimento, ma dell'interesse negativo, con il quale sono ristorate le spese sostenute per le trattative contrattuali e la perdita di occasioni contrattuali alternative, secondo la dicotomia ex art. 1223 cod. civ. danno emergente - lucro cessante. (Cons. Stato, Ad. Plen. 29 novembre 2021, n. 21).
In altri termini, nel caso di responsabilità precontrattuale il danno risarcibile deve, infatti, essere commisurato non all'interesse positivo (ovvero alle utilità economiche che il privato avrebbe tratto dall'esecuzione del contratto) ma al c.d. interesse negativo, da intendersi come interesse a non essere coinvolto in trattative inutili, o, comunque, a non investire inutilmente tempo e risorse economiche partecipando a trattative destinate a rivelarsi inutili a causa del comportamento scorretto della controparte.
In ordine alla quantificazione del danno, l'interesse negativo include sia il danno emergente (per le spese sostenute ai fini della partecipazione alla gara e in previsione della stipulazione del contratto), sia il lucro cessante, dovuto alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, sfumate a causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione, non sfociata nella stipulazione, o, comunque in ragione dell'affidamento nella positiva conclusione del procedimento (Cons. Stato, Ad. Plen. 4 maggio 2018, n. 5).
8) Per quanto riguarda le modalità di liquidazione dell'obbligazione risarcitoria, il Collegio ritiene di poter far ricorso al meccanismo previsto dall'art. 34, comma 4, c.p.a.
Il Comune di Subiaco dovrà, pertanto, proporre al ricorrente, a titolo di risarcimento del danno ed entro 30 (trenta) giorni dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, il pagamento di una somma quantificata secondo il criterio del risarcimento dell’interesse negativo, tenendo conto della documentazione versata agli atti del giudizio, e, in particolare, dovrà rifondere gli importi spesi per la realizzazione delle opere e gli acquisti fatti per la gestione del servizio affidato in concessione di cui gli appellanti non hanno potuto trarre vantaggio o hanno potuto riutilizzare a loro favore, comprese eventuali spese accessorie che si fossero rese necessarie, nonché le spese di ripristino affrontate per la restituzione dei beni in concessione.
Tali spese saranno considerabili sono se poste in essere sino alla data del 7.11.2011 di pubblicazione dell’ordinanza n. 4883 del Consiglio di Stato che ha sospeso l’esecutività della sentenza del T.A.R. Lazio n. 5133/2011, in quanto da quel momento non può dirsi più incolpevole l’affidamento sulla legittimità degli atti, essendo intervenuta una decisione giurisdizionale che mette in dubbio tale legittimità, sia pure se assunta in sede cautelare.
Il tutto con interessi e rivalutazione monetaria come per legge.
9) Per quanto indicato l’appello deve essere parzialmente accolto nei termini di cui in motivazione.
Alla luce dell’accoglimento solo parziale dell’appello, delle specifiche circostanze inerenti al ricorso e del panorama giurisprudenziale non univoco sui temi oggetto di controversia, il Collegio ritiene che sussistano elementi che militano per l’applicazione dell’art. 92 c.p.c., come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a. e depongono per la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio tra le parti.