CCC *Famiglia – Unioni civili e valenza del cognome comune scelto dalle parti

1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, lettera c), numero 2), e 8 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5, recante «Adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni, nonché modificazioni ed integrazioni normative per la regolamentazione delle unioni civili, ai sensi dell’articolo 1, comma 28, lettere a) e c), della legge 20 maggio 2016, n. 76», in riferimento agli artt. 2, 3, 11, 22, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e agli artt. 1 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
1.1.– In particolare, la prima delle due disposizioni censurate inserisce, nell’art. 20 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente), il comma 3-bis, il quale prevede che «[p]er le parti dell’unione civile le schede devono essere intestate al cognome posseduto prima dell’unione civile».
La disposizione dell’art. 8 prevede, d’altra parte, che «[…] l’ufficiale dello stato civile, con la procedura di correzione di cui all’articolo 98, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, annulla l’annotazione relativa alla scelta del cognome effettuata a norma dell’articolo 4, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, entrambe le disposizioni sopra richiamate violerebbero, in primo luogo, l’art. 2 Cost., poiché la parte dell’unione civile verrebbe privata, d’ufficio e senza contraddittorio, del cognome comune legittimamente acquisito e utilizzato, così determinando la lesione dei diritti al nome, all’identità e alla dignità personale.
Sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., non essendo rinvenibile alcuna giustificazione del potere statale d’intervenire d’imperio, con la procedura senza contraddittorio prevista per la correzione di errori materiali, al fine di modificare l’identità personale di un soggetto.
Inoltre, le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 22 Cost., poiché, con l’eliminazione della valenza anagrafica del cognome comune, la parte dell’unione civile verrebbe privata di un cognome già acquisito.
Esse sarebbero altresì in contrasto con l’art. 76 Cost., poiché il legislatore delegante non avrebbe conferito alcun potere di revoca o annullamento delle iscrizioni e annotazioni già effettuate.
Infine, è denunciata la violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., poiché sarebbe pregiudicato il diritto al nome e al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 1 e 7 della CDFUE.
2.– In via preliminare, vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
2.1.– Ad avviso di quest’ultima, il rimettente avrebbe omesso di considerare la disciplina delle schede anagrafiche individuali, di cui all’art. 20 del d.P.R. n. 223 del 1989, e dell’iscrizione negli archivi dello stato civile, di cui all’art. 63 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127). La considerazione di tali disposizioni avrebbe consentito di individuare la ratio dell’intervento legislativo in esame nell’esigenza di uniformare la disciplina del cognome delle unioni civili a quella del cognome coniugale.
Tuttavia, è proprio su tale volontà di assimilare la disciplina dei due istituti che il giudice a quo, sulla scorta di argomenti illustrati anche dalle parti costituite, appunta le proprie censure in ordine alle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 5 del 2017. Nella prospettazione del rimettente, l’omologazione della disciplina del cognome comune a quella del cognome coniugale avrebbe svuotato di significato una previsione innovativa e caratterizzante il riconoscimento giuridico e sociale delle unioni civili.
2.2.– L’Avvocatura dello Stato ha, inoltre, eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, in considerazione della carente descrizione della fattispecie.
Dall’ordinanza di rimessione risulta che nel giudizio a quo le parti ricorrenti hanno chiesto l’annullamento della variazione delle registrazioni anagrafiche, nonché dell’annotazione nell’atto di nascita di una delle parti, conservato presso i registri dello stato civile. Il giudice a quo ha evidenziato che tali variazioni sono state eseguite in applicazione delle disposizioni censurate. Egli ritiene quindi che la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale discenda dalla natura stessa degli atti impugnati, in quanto meramente applicativi della disciplina censurata.
L’esposizione della vicenda concreta, se pur sintetica, è comunque sufficiente a soddisfare l’onere di motivazione sulla rilevanza, essendo stata adeguatamente rappresentata una situazione in cui le doglianze dei ricorrenti non potrebbero altrimenti essere accolte che a seguito dell’eventuale accoglimento della questione di legittimità proposta nei confronti della disposizione di legge di cui i provvedimenti impugnati sono applicazione (sentenze n. 16 del 2017, n. 151 del 2009, n. 303 del 2007 e n. 4 del 2000).
2.3.– Non è, infine, fondata l’eccezione di inammissibilità della censura relativa all’eccesso di delega, perché generica e non adeguatamente motivata.
Con motivazione sintetica, ma non implausibile, il giudice a quo deduce la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto l’art. 1, comma 28, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), nel delegare la potestà legislativa al Governo «[f]atte salve le disposizioni di cui alla presente legge», non avrebbe previsto alcun potere di revoca o annullamento retroattivo di iscrizioni e annotazioni già effettuate.
I termini della questione sono stati dunque enucleati con un’argomentazione adeguata, che supera il vaglio preliminare di ammissibilità richiesto a questa Corte, giacché «[a]ttiene al merito – e non al profilo preliminare dell’ammissibilità – la valutazione della forza persuasiva degli argomenti addotti a sostegno delle censure» (sentenza n. 259 del 2017).
3.– Va d’altra parte dichiarata l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento all’art. 22 Cost.
Il rimettente si limita ad osservare che il nome costituisce elemento distintivo della personalità al punto da meritare un’espressa tutela da parte dell’art. 22 Cost., ma omette qualsiasi argomentazione a sostegno del denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e il parametro evocato, il quale esclude la privazione del nome per motivi politici. Inoltre, nessun argomento è svolto circa la natura politica della lamentata privazione.
Tale difetto motivazionale comporta l’inammissibilità della questione. Per costante giurisprudenza di questa Corte, non basta l’indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell’una rispetto al contenuto precettivo dell’altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione (ex multis, sentenze n. 240 e n. 35 del 2017, n. 120 del 2015, n. 236 del 2011; ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009).
4.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
4.1.– Con la disposizione censurata il legislatore delegato ha escluso la valenza anagrafica del cognome comune scelto dalle parti dell’unione civile. Ferma restando la facoltà di scegliere ed utilizzare tale cognome comune per la durata della unione, viene espressamente esclusa la necessità di modificare la scheda anagrafica individuale, la quale resta, pertanto, intestata alla stessa parte con il cognome posseduto prima della costituzione dell’unione.
È questa la scelta del legislatore delegato che è stata censurata dal giudice rimettente, assumendo che essa contrasti, in primo luogo, con i principi posti dalla legge n. 76 del 2016 e, dunque, con l’art. 76 Cost.
4.1.1.– Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 194 del 2015; sentenze n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014).
4.1.2.– Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che oggetto della delega in esame era «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, e in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Quest’ultima disposizione prevede un sistema di individuazione del cognome comune fondato sull’accordo e ispirato alla libertà di determinazione delle parti dell’unione civile. Ad esse è riconosciuta infatti la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell’una o dell’altra. Parimenti, esse potrebbero legittimamente decidere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.
Ancorché la disposizione del comma 10 non contenga un’espressa qualificazione degli effetti di tale scelta, essa fornisce tuttavia un’indicazione quanto mai significativa circa la necessità di modifiche anagrafiche, laddove espressamente delimita la durata del cognome comune a quella dell’unione civile. Ai sensi del comma 10 in esame, infatti, la scelta del cognome è operata «per la durata dell’unione». Dallo scioglimento dell’unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica del cognome comune.
È stata proprio la considerazione di tale delimitazione temporale che ha guidato la scelta operata dal legislatore delegato. Infatti, nella relazione illustrativa che accompagna lo schema del d.lgs. n. 5 del 2017, si rileva che «una vera e propria variazione anagrafica del cognome della parte dell’unione civile avrebbe effetto solo per la durata dell’unione». Tale rilievo sottintende la contraddittorietà e l’irragionevolezza insite nell’attribuire alla scelta compiuta dalle parti dell’unione civile un effetto, la variazione del cognome anagrafico, che è nell’ordinamento tendenzialmente definitivo e irreversibile, mentre nella specie sarebbe temporaneo e limitato alla durata dell’unione.
Vale la pena di rammentare che l’aggiornamento della scheda anagrafica individuale avrebbe comportato che qualsiasi successiva certificazione anagrafica sarebbe stata rilasciata con il solo cognome modificato, con la conseguente necessità di aggiornare non solo i documenti di identità, ma anche i dati fiscali, lavorativi, sanitari e previdenziali.
L’impostazione fatta propria dal rimettente non appare dunque coerente con il principio di ragionevolezza, né con le previsioni della legge delega ed in particolare con l’indicazione rinvenibile nell’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016. Nell’adeguare l’ordinamento dello stato civile alle previsioni sul cognome delle unioni civili, è stata dunque compiuta una scelta che rappresenta il coerente sviluppo dei principi posti dalla legge di delega.
4.2.– Anche in riferimento agli artt. 2, 3, 11 e 117, primo comma, Cost. le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
Che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell’identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, rendendo così doverosa la modifica anagrafica di quello originario, non discende, infatti, né dalle norme della nostra Costituzione, né da quelle interposte che essa richiama.
Va sottolineato, inoltre, che la ipotizzata valenza anagrafica del cognome comune sarebbe suscettibile di produrre effetti pregiudizievoli sulla sfera personale e giuridica dei figli di quella delle parti che avesse assunto tale cognome in sostituzione del proprio. Ad essi infatti, in base all’art. 262 del codice civile, è attribuito il cognome del genitore che li abbia riconosciuti. A seguito dello scioglimento dell’unione civile i figli (salva la facoltà di scelta riconosciuta al figlio maggiorenne dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000) rimarrebbero privi di uno degli elementi che, fino al momento dello scioglimento, identificava il relativo nucleo familiare, con tutto ciò che questo comporta nell’ambiente in cui essi vivono.
È bensì vero che le parti del giudizio a quo rifiutano ogni analogia con il matrimonio per quanto attiene al cognome comune. È tuttavia espressivo di un principio caratterizzante l’ordinamento dello stato civile che il cognome d’uso assunto dalla moglie a seguito di matrimonio non comporti alcuna variazione anagrafica del cognome originario, che rimane immodificato. L’art. 20, comma 3, del d.P.R. n. 223 del 1989 prevede, infatti, che «Per le donne coniugate o vedove le schede devono essere intestate al cognome da nubile». In linea di coerenza con tale previsione, si prevede che la scheda anagrafica della parte dell’unione civile debba indicare il nome ed il cognome dell’altra parte dell’unione (comma 1 dell’art. 20), senza che ciò comporti una modifica del proprio cognome anagrafico (comma 3-bis).
D’altra parte, la dichiarazione della scelta circa la posizione del cognome comune non è affatto priva di significato, come sostengono le parti, neppure laddove a tale cognome si riconnetta mero valore d’uso. Anche in questo caso, infatti, la posizione del cognome acquisito rispetto a quello originario riveste indubbio rilievo. Va infatti sottolineato che la dichiarazione sulla posizione del cognome comune costituisce esercizio di un’ulteriore facoltà che la legge n. 76 del 2016 ha espressamente attribuito alle parti dell’unione civile. Il rilievo di tale dichiarazione trova riscontro anche nella previsione della sua iscrizione, a cura dell’ufficiale dello stato civile, negli archivi informatici degli atti dello stato civile (art. 63, comma 1, lettera g-sexies, del d.P.R. n. 396 del 2000).
La natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l’unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell’identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere.
5.– Anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2017 non sono fondate.
5.1.– Le censure del giudice a quo attengono in primo luogo alla violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbe stato conferito al legislatore delegato alcun potere di revoca o annullamento di iscrizioni e annotazioni già effettuate e relative alla scelta del cognome.
Al riguardo va rilevato che la disposizione dell’art. 8 detta una disciplina transitoria destinata ad applicarsi alle unioni civili costituite nell’intervallo temporale tra il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144 (Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell’archivio dello stato civile, ai sensi dell’articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76), e il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nelle quali sia stata esercitata l’opzione per il cognome comune e sia stata altresì effettuata la variazione anagrafica prevista dall’art. 4 del citato d.P.C.m. e successivamente esclusa dall’art. 3, lettera c), numero 2), del d.lgs. n. 5 del 2017.
Va ribadito che la delega conferita dall’art. 1, comma 28, lettera a), della legge n. 76 del 2016 aveva ad oggetto «[l’] adeguamento […] delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni» alle previsioni della stessa legge sulle unioni civili, con salvezza delle disposizioni da essa direttamente introdotte, ed in particolare di quella di cui all’art. 1, comma 10, dedicato alla disciplina del cognome comune delle unioni civili.
Come si è visto nel precedente punto 4., il legislatore delegato ha dapprima esplicitato il significato del principio posto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 76 del 2016, escludendo la valenza anagrafica del cognome comune. Con il successivo art. 8, e sempre al fine dell’adeguamento della disciplina dello stato civile, ha previsto la caducazione delle annotazioni effettuate medio tempore, in applicazione di una fonte normativa, provvisoria e di carattere secondario, non coerente con i principi della delega.
5.2.– Non è ravvisabile neppure la denunciata violazione degli artt. 2, 11 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 8 della CEDU e agli artt. 1 e 7 della CDFUE. Nella prospettazione del rimettente, tali censure sono ricondotte al sacrificio del diritto alla conservazione del cognome comune da parte di chi lo abbia acquisito nel vigore dell’art. 4, comma 2, del d.P.C.m. n. 144 del 2016.
Introdotto da una disposizione destinata ad applicarsi in attesa dell’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla legge n. 76 del 2016, l’effetto modificativo della scheda anagrafica rivestiva la medesima natura provvisoria della fonte regolamentare che l’aveva previsto e che era destinata a cessare per effetto dei successivi decreti legislativi. La dichiarata transitorietà del d.P.C.m. in esame e la relativa brevità del suo orizzonte temporale di riferimento portano ad escludere che le novità da esso introdotte abbiano determinato un ragionevole affidamento in ordine all’emersione e al consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Ne consegue che la previsione dell’annullamento delle variazioni anagrafiche già effettuate non può ritenersi lesiva di una nuova identità personale, ancora non affermata.
Pertanto, non risulta conferente il richiamo alla sentenza n. 13 del 1994, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 165 del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile), per violazione dell’art. 2 Cost., nella parte in cui esso non prevedeva che, ove la rettifica degli atti dello stato civile, per ragioni indipendenti dalla volontà del soggetto, comporti il cambiamento del cognome, il soggetto stesso possa ottenere dal giudice il riconoscimento del diritto a mantenere il cognome originariamente attribuitogli.
In quella occasione, l’esigenza di protezione dell’interesse alla conservazione del cognome è stata riconosciuta «[…] in presenza di una situazione nella quale con quel cognome la persona sia ormai individuata e conosciuta nell’ambiente ove vive […]», ciò che non può ritenersi verificato nel caso in esame.
5.3.– Non è fondata, infine, la censura di irragionevolezza proposta dal rimettente in riferimento all’indicazione legislativa del procedimento di cui all’art. 98 del d.P.R. n. 396 del 2000 per l’annullamento delle variazioni anagrafiche effettuate in base all’art. 4 del citato d.P.C.m.
Il modello procedimentale prescelto dal legislatore delegato prevede, in particolare, che del provvedimento sia data comunicazione agli interessati, al procuratore della Repubblica ed al prefetto. A partire da questa comunicazione gli interessati hanno trenta giorni per proporre ricorso al tribunale, a norma dell’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000. Lo stesso termine è previsto per il procuratore della Repubblica che può proporre ricorso contro la correzione effettuata dall’ufficiale dello stato civile.
Si tratta dunque di una procedura che garantisce il contraddittorio con la parte interessata attraverso la proposizione di un ricorso e l’instaurazione di un giudizio di fronte ad un tribunale (come è avvenuto proprio nel giudizio a quo).
E, se è vero che la procedura indicata contempla il contraddittorio e l’intervento del giudice in una fase differita, si tratta pur sempre di uno strumento processuale che consente alle parti coinvolte di contestare l’annullamento di variazioni anagrafiche. L’art. 8 in esame prescrive dunque l’utilizzo di uno schema procedimentale, già previsto nel sistema dell’ordinamento dello stato civile, ancorché utilizzato per differenti evenienze. La legittimità del rinvio a tale modello non è inficiata dall’estensione del suo ambito applicativo a ulteriori fattispecie, differenti da quelle per le quali esso era originariamente previsto.
Corte Costituzionale, sentenza del 22.11.2018, n. 212/18
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