P2 *Lavoro – Assenza dal luogo di lavoro, responsabilità civile e integrabilità della truffa

- I ricorsi sono inammissibili.
- I ricorrenti introducono censure alle valutazioni di merito che sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l'argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie. (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del 31.5.2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Petrella, Rv. 226074). Inoltre le doglianze riproducono pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali la Corte d'appello, attraverso una lettura critica delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale per come interpretate dal giudice di prime cure, ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che i ricorrenti non considerano e si limitano a censurare genericamente.
Va detto innanzi tutto che è manifestamente infondata l'eccezione di prescrizione dei reati avanzata dal ricorrente So., dal momento che al termine di prescrizione ordinario (anni sette e mesi sei , scadente il 15/3/2017 e 6/4/2017) , vanno aggiunti i periodi di sospensione del processo dovuti all'adesione dei difensori all'astensione, (come indicato nella sentenza di primo grado), sicchè il relativo termine, ulteriormente prorogato, non era maturato al momento della pronunzia della sentenza di appello.
- Nel merito va osservato che la sentenza ha puntualmente risposto a tutte le doglianze difensive riguardanti presunte carenze probatorie, idonee, ad avviso della difesa, ad escludere l'affermazione di penale responsabilità in ordine al reato di truffa, dando atto dei ripetuti allontanamenti dei ricorrenti dal posto di lavoro che, a prescindere dall'indimostrato svolgimento di incombenze parallele, non documentate, era provato dai servizi di osservazione della P.G. attestanti la presenza dei ricorrenti (in particolare Gi. e Gr.), in orario di lavoro, al bar, ma anche attraverso la rilevazione di evidenti discrasie tra gli orari di servizio annotati e quelli effettivamente rilevati dalla P.G. (in particolare per Br. e So.), per cui nessun ragionevole di dubbio idoneo a scardinare l'impianto motivazionale, si profila nel caso di specie dovendosi in proposito ribadire che il principio dell'oltre ragionevole dubbio", introdotto nell'art. 533 c.p., dalla legge n. 46 del 2006, non ha mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell'appello, giacché la Corte è chiamata ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito (Sez. 2, Sentenza n. 29480 del 07/02/2017,Rv. 270519).
- Con riguardo, poi, alla fattispecie di cui all'art. 340 c.p., (contestata a Gi. e Gr.), la Corte di merito, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ha specificamente valutato la consistenza delle singole condotte, ha distinto per ciascuno dei due imputati il giorno e gli orari della chiusura anticipata del Museo (pari a circa 25 minuti), ritenendo con giudizio in fatto non illogico, che la stessa potesse dar luogo al reato avendo determinato la mancata fruizione della pinacoteca a potenziali visitatori per un tempo non trascurabile.
Il reato è integrato, infatti, da qualsiasi comportamento che provochi l'interruzione o turbi il regolare svolgimento di un pubblico servizio (la norma punisce chi "cagiona", in qualsiasi modo, l'interruzione o il turbamento). Non rileva che l'interruzione sia definitiva, ne' che il turbamento sia totale, essendo il reato integrato da una interruzione momentanea, purché di durata non irrilevante, e da un turbamento relativo, purché non insignificante (Sez. 5 15388/2014, rv. 260217) . Né ha pregio l'argomento difensivo, secondo cui la chiusura sarebbe stata determinata da altro soggetto (personale dell'IVRI) che, come osservato dalla Corte, fu necessitato a chiudere il portone proprio per l'assenza dell'addetto alla vigilanza all'interno della Pinacoteca.
- Quanto al trattamento sanzionatorio ed al giudizio di equivalenza e non di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche (motivo avanzato da So.) , preme evidenziare che il giudice di appello ha ritenuto adeguata la pena determinata dal giudice di primo grado considerandola bene perequata rispetto al reale disvalore del fatto, rilevando, con adeguata motivazione, di non potere concedere le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza rispetto alle contestate aggravanti, considerata la particolare gravità del fatto; detto giudizio non appare censurabile in questa sede, non apparendo essere il frutto di un mero arbitrio o di un ragionamento illogico.
- Quanto alla esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p., (motivo avanzato da Br. e Gi.), va ricordato che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 - bis c.p., non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di «comportamento abituale» per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, ostativa al riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza «non occasionale» (Sez. 2, n. 1/2016 , Rv. 268970; Sez. 5, n. 4852/2016, Rv. 269092; Sez. 3, n. 43816/2015, Rv. 265084). Inoltre, la Corte d'appello, con riguardo alla fattispecie di cui all'art. 340 c.p., non ha escluso la causa di non punibilità in ragione della qualifica soggettiva dell'imputato (pubblico dipendente) ma ha ampiamente giustificato il diniego, avuto riguardo alla gravità del reato ed alle conseguenze anche in termini di danno all'immagine derivatene.
- In ultimo con riferimento alle doglianze avanzate dal ricorrente Gr. circa la mancata individuazione di un danno (patrimoniale e non patrimoniale) ed alla sua entità, il motivo è manifestamente infondato. La condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (Sez. 5, 45118/2013, Rv. 257551; Sez. 3, 36350/2015, Rv. 265637).
Inammissibile poi il motivo di ricorso relativo alla mancata applicazione in tema di danno risarcibile per mancata prestazione lavorativa dell'art. 55 quinquies D.Lgs.. 165/2001, introdotto dall'art. 69 comma 1 del D.Lgs. 27/10/2009 n. 150, trattandosi di norme generali sull'ordinamento dei lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, successive ai fatti di causa. In ogni caso il giudice di merito ha spiegato le ragioni dell'an e del quantum del risarcimento del danno che nell'ipotesi in esame era ben superiore rispetto all'entità della retribuzione non dovuta, estendendosi alle capacità turistico recettive dell'ente pubblico Provincia di Salerno ed alla sua immagine nel cruciale settore del turismo in ambito territoriale, pertanto il suo apprezzamento in quanto adeguatamente motivato e non disarmonico rispetto ai dati processuali, non è censurabile in sede di legittimità (Sez.I, n. 48461/2013, rv. 258170; Sez. 4, n. 18099/2015, Rv. 263450).
All'inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti che li hanno proposti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila ciascuno alla Cassa delle ammende.
Corte di Cassazione, II, sentenza del 14.12.2018, n. 56361
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